L’Università al tempo del Covid, tra precarietà e burocrazia Con l’approssimarsi della legge di bilancio, i critici si risvegliano, criticando un mondo che egregiamente svolge il suo compito, con pochi fondi e difficili condizioni di lavoro.

Fonte: il manifesto – 3 dicembre 2020

Ricorre in questi giorni un duplice anniversario. Nel novembre del 2010 prese vita la protesta di tanti ricercatori che salirono sui tetti delle università italiane, a partire da Architettura a Roma. Un momento di consapevolezza ed impegno, in cui si segnalò alla politica e alla società italiana ciò che stava avvenendo in Parlamento, a cui seguì la mobilitazione degli studenti, che occuparono simbolicamente i monumenti vestiti di titoli di libri. La politica non volle ascoltare allora, né dopo il cambio di maggioranza, tanto che i decreti attuativi approvati negli anni seguenti chiarirono ulteriormente la direzione punitiva per l’Università italiana in cui si muoveva quella riforma. Per le università è un anniversario nefasto, purtroppo sottolineato dai numeri della pandemia, che confermano le ragioni di chi allora stigmatizzava la scelta di precarizzare la ricerca, di impoverirla, e quella di dare un’impronta aziendalistica alla gestione degli atenei. Una scelta di corto respiro e contraddittoria, associata ad una burocrazia asfissiante che nessuna azienda introdurrebbe mai. L’università, con tutti i suoi limiti (tra cui sicuramente una tendenza all’autoreferenzialità), era comunità, in cui discussione, confronto e critica rappresentavano l’humus che fecondava pensiero critico e ricerca libera, e quindi una didattica più ricca. Oggi nelle università si discute al più di come assecondare in modo più zelante i dispositivi dell’agenzia di valutazione, onde migliorare la performance, producendo verbali che potranno piacere ai “valutatori”, un incubo orwelliano di cui spesso parliamo, ma che quasi nessuno cerca di interrompere. (…) Rispetto a ciò il Covid dovrebbe averci insegnato qualcosa. Per quanto concerne la didattica, la gestione della pandemia ha visto l’incredibile silenzio da parte di istituzioni improvvisamente rispettosissime dell’autonomia degli atenei, interrompendosi quel flusso, sin qui inarrestabile, di prescrizioni dal ministero e dall’agenzia di valutazione, proprio quando il passaggio alla didattica a distanza prima, e il rientro in aula poi, avrebbero richiesto una gestione unitaria dell’emergenza almeno dal punto di vista delle precauzioni a tutela della salute, lasciando tutto al fai da te e alla buona volontà dei docenti (quanti sanno che la sicurezza sul lavoro riguarda anche la Dad?). Nei policlinici, universitari e non, abbiamo visto in questo periodo i pronto soccorso tenuti in piedi da personale a tempo determinato. Allo stesso modo i laboratori di ricerca, affidati a persone che campano con poco più di mille euro al mese. Il Covid sta mostrando tuttavia che la ricerca, se adeguatamente finanziata, può aiutare a salvare il pianeta, e quanto sia importante per la collettività l’istruzione. Sarebbe ora di restituire all’Università il posto che merita, dopo dieci anni di sperimentazione di una pessima legge.

Abstract articolo di Roberta Calvano

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