Scusa demografica e scuola più povera

Fonte: La Stampa – 9 giugno 2021

Abstract articolo di Chiara Saraceno

Il calo demografico, al centro di molte preoccupazioni nei discorsi pubblici, è sistematicamente utilizzato come motivo per ridurre la spesa in istruzione ormai da diversi anni.

La legge di bilancio approvata il dicembre scorso prevedeva, nel passaggio dal 2021 al 2023, una contrattazione di spesa di 3,6 miliardi complessivi, che si aggiungeranno alla riduzione di pari valore già avvenuta nel triennio precedente, nonostante, come documentato anche nella Relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione 2020 della Commissione europea, la spesa per l’istruzione in Italia sia tra le più basse nell’Ue, sia in percentuale del Pil (0,3% rispetto a 0,8% della media Ue), sia in percentuale della spesa pubblica per l’istruzione (7,7% rispetto a 16,4%).

A settembre, quindi, ci saranno meno insegnanti, come stanno scoprendo molti presidi e docenti, meno classi nella scuola primaria, più difficoltà a mantenere il tempo pieno là dove c’è, o comunque a mantenere la compresenza delle insegnanti in misura adeguata.

Tutto ciò è in contraddizione con le dichiarazioni di questi mesi e settimane da parte sia del ministro dell’Istruzione sia di Draghi, con gli stessi obiettivi del Pnrr su questo tema, sulla centralità della scuola, le promesse di eliminare le classi pollaio e ampliare la disponibilità di tempo pieno nella scuola primaria e secondaria di primo grado, anche al fine di contrastare la povertà educativa e la dispersione scolastica, che colpiscono le bambine/i e adolescenti più svantaggiati e che richiederebbero un’attenzione e un tempo più personalizzati.

Inoltre, la diminuzione demografica non riguarda (ancora) la scuola secondaria di secondo grado, dove anzi gli studenti sono in crescita e dove si pone con maggiore intensità il problema delle classi troppo numerose, soprattutto nel primo biennio e soprattutto negli istituti tecnico-professionali, dove il numero di studenti per classe può in alcuni casi superare i 30 ragazzi/e.

Il cinismo amministrativo giustifica questo affollamento con la scrematura che “normalmente” avviene nei primi due anni, tra bocciature e abbandoni. (…)

Va aggiunto che ridurre gli investimenti, già insufficienti, sulla scuola e sugli insegnanti in modo proporzionale al calo demografico, invece di utilizzare la congiuntura demografica per migliorare la scuola, è anche in contraddizione con l’obiettivo di favorire le scelte positive di fecondità, creando le condizioni per cui chi sceglie di avere un figlio, soprattutto un figlio in più, si senta ragionevolmente certo di avere al proprio fianco, nel compito di farlo/a crescere e sviluppare le sue capacità, servizi educativi e scuole pubbliche accoglienti, dotate di spazi educativi adeguati qualitativamente e quantitativamente, con personale numericamente e professionalmente adeguato, con le attrezzature, tecnologie e risorse necessarie a una didattica ricca e innovativa.

Non c’è assegno unico e/o voucher che possa sostituire, nel garantire pari opportunità nello sviluppo, servizi educativi e scuole di qualità e davvero universali e inclusive.

Forse, se invece di fare “gli stati generali della natalità” si facessero quelli delle bambine/i e adolescenti, rendendo loro la soggettività di individui con i loro bisogni, desideri, aspettative, differenze e disuguaglianze, si uscirebbe dalla retorica degli annunci smentiti dalle decisioni e si porrebbe maggiore attenzione ai contesti in cui li facciamo crescere, di cui la scuola, assieme alla famiglia, è il più importante e decisivo.

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