Covid. Contagi in crescita. Se chiudere le scuole non è più un tabù

Forse ha ragione che sostiene che passo dopo passo, bollettino di guerra serale dopo bollettino, allarme di virologo, dopo allarme di anestesista, scivoleremo entro Natale dentro il lock down per tornare alla luce a Pasqua o per la Festa della Repubblica, a giugno inoltrato, in tempo per tornare al mare e ricominciare la catena. O forse ha ragione chi crede ad autorevoli esponenti di governo, sicuri che il vaccino ci salverà prima che l’emergenza sanitaria salga oltre il livello di guardia. Per ora si resiste con geografie creative di presidi a seconda della mappa dei positivi, delle quarantene, dei guariti, delle supplenze andate a vuoto per paura, lontananza, errori delle graduatorie. Eppure, la chiusura delle scuole, dopo la fabbrica di San Pietro, era un tabù. Ma questa volta se le fabbriche non chiudono, non deve chiudere neanche la scuola.

Per ragioni diverse e tutte cogenti.

La prima è la più evidente, specialmente se si è genitori di figli adolescenti. La scuola è diventata un campo di concentramento, anzi di distanziamento. Niente sfugge ad un’organizzazione occhiuta e consapevole di come il virus sia invisibile e si annidi sulle più innoque forme di interazione in un ambiente popolato da umani. Ad esempio, aprire la maniglia di una porta, sfiorare la superficie di un oggetto, su cui anche oggi studi di enti terzi sostengono che il virus possa albergare vivo e vitale fino ad un mese.

La scuola è l’ambiente più sterile che i ragazzi possano frequentare in questo momento, più dell’abitazione domestica di certo. All’interno della casa familiare per un moto emotivo di autoprotezione, abbassiamo le difese, anche quelle igienico-sanitarie. Vi torniamo con un senso di resa, dopo una giornata tribolata in anossia tra mascherine e gel disinfettanti.

A scuola si entra con la mascherina, ci si siede al banco e a turni settimanali si ha il privilegio di uscire in cortile per la ricreazione o affacciarsi sul corridoio tra un’ora e l’altra. Sigillati i distributori automatici, si mangia solo cibo consegnato da ditte esterne in confezioni a tenuta stagna.

Il problema del sovraffollamento, specialmente in alcuni tipi di scuole medie e superiori esiste, ma è un elemento trascurabile rispetto al liberi tutti di quando si è un passo oltre la soglia della scuola, sia in entrata che in uscita. Rispetto alla pratica dello sport, sacrosanta ma non esente da quei contatti fisici che ora dovremmo contenere al massimo. Il tempo libero infine che è zona franca, per i ragazzi ma a malincuore dobbiamo osservare anche per gli adulti italiani.

La seconda è di carattere socioeconomico. Se il lock down ha significato tre mesi di scuola in meno, chiudere la scuola oggi, significherebbe far perdere due anni scolastici ad intere generazioni di studenti. Tre mesi possono essere tamponabili ma tre mesi e un anno, si moltiplicano nel deficit didattico reale in competenze e esperienza di apprendimento. Una privazione oggettiva ma anche percepita che determinerà un depauperamento del capitale sociale del futuro. Il sistema -Paese, come ci piace chiamare l’Italia senza italiani, può permettersi questo depauperamento di formazione?

Ma ce ne è anche una terza: combattere un luogo comune strisciante quanto radicato nel nostro profondo che con la cultura – la competenza – non si mangia. Che si mangi con le fabbriche, i ristoranti ed i cinema, l’indotto della movida e magari la moda, con il social marketing e gli status symbol ma non con la capacità trasformativa delle attività intellettuali, la loro capacità di progredire e di renderci persone non solo più abbienti ma anche meno disuguali. Di questa tara fa fede una delle motivazioni per cui nei mesi estivi riaprire le scuole fosse un imperativo categorico: la gestione dei figli di chi lavora per portare a casa uno stipendio ma anche per far ripartire la macchina produttiva. La scuola dunque come elemento strumentale ad altro, l’homo sapiens in subordine a quello oeconomicus. Il problema d’altronde esiste ma per l’assenza di reti alternative e di quella protezione alla maternità e alla famiglia, che pure è inscritta nella Costituzione vigente.

Al massimo possiamo arrivare a sdoganare i titoli, quelli che servono per accedere ad un concorso, ad una graduatoria; ma sulla cultura l’Italia – detentrice del 90% dei beni culturali mondiali – non riesce a credere fino in fondo e per questo ritiene che chiudere le scuole possa di nuovo essere una delle opzioni sul tappeto. Ma non l’estrema ratio. In fondo per mangiare è sufficiente tenere aperti i supermercati.

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