No all’oligarchia della scienza

Fonte: La Repubblica – 19 marzo 2021

Le storie di eccellenze e talenti diffusi su tutto il territorio nazionale, spesso sconosciute a cittadini e istituzioni, su cui andrebbero concentrate le priorità di investimento pubblico, ci dicono che tra le cose da non fare con le risorse in arrivo dall’Europa c’è la creazione di “oligarchie della conoscenza” o nuovi centri privilegiati, in nome di una filosofia elitaria, “estrattiva” e non “inclusiva”, della ricerca. Eppure questo, ad oggi, è quel che sembra delinearsi, col rischio che si consolidi una visione della ricerca che accentra risorse, usa i fondi pubblici per intestarsi competenze e idee sviluppate altrove, si autoproclama eccellente, rifuggendo ogni competizione ad armi pari. Una visione lontana dal metodo della scienza oltre che dai princìpi della Costituzione. Nella bozza del Pnrr è previsto un finanziamento di 20 nuovi “campioni territoriali di R&S” e (almeno) 7 “campioni nazionali di R&S”; resta indefinito cosa siano e quale sia il rapporto con le strutture esistenti. I nuovi enti andrebbero ad aggiungersi a un sistema pubblico della ricerca che può contare su ben 135 soggetti che già perseguono l’obiettivo di creare conoscenze utili alla crescita di talenti, imprese e territori. Il bisogno di un solido coordinamento, di una semplificazione e, perché no, di una riforma di un sistema così complesso e frammentato è evidente. Promuovere ulteriori enti o fondazioni da dotare di fondi pubblici “propri e privilegiati” senza valorizzare l’esistente vorrebbe dire alimentare una politica di discriminazione arbitraria di giovani, ricercatori e territori. Chi verrà lasciato a boccheggiare senza risorse è destinato a soccombere agli ennesimi “vincitori senza gara”. Anche qualora questa infornata di nuovi enti fosse originata da analogie con modelli esteri (come il Fraunhofer tedesco), non si può seriamente auspicare che la politica indirizzi il futuro della ricerca in questa direzione senza un’analisi di ciò che già esiste, senza solidi argomenti circa necessità, previsione di produttività e sostenibilità anche post-2026, reale trasferibilità di governance e procedure estere. Nulla di ciò si sta prospettando. Eppure in Europa vi sono esempi virtuosi di strategie e programmi nati per rinforzare le capacità diffuse di ricerca in ogni ambito del sapere e, a partire da queste, favorire l’innovazione e lo sviluppo dei territori, specie quelli più svantaggiati. L’obiettivo è rendere la ricerca un veicolo per trasformare le conoscenze specialistiche in sapere collettivo, volano di crescita sociale, culturale ed economica in territori a fortissimo rischio di spopolamento e impoverimento. Soprattutto, serve iniettare nel sistema, in modo strutturato e continuativo, ingenti risorse, quelle che il nostro Paese, diversamente da Inghilterra, Germania o persino Spagna, non ha mai avuto. Non posso quindi che auspicare la realizzazione di quanto proposto nel “Piano Amaldi”, ovvero un aumento strutturale e permanente dell’investimento dello Stato in ricerca. Il primo passo è affrontare la fragilità di un Paese che, secondo i dati Oecd (Ocse), ha appena la metà di studiosi attivi su mille occupati rispetto a Francia e Germania. Si tratta quindi di aumentarli, quindi, non “accentrarli”. Una volta comprese, senza pregiudizi, le esigenze dell’ecosistema della ricerca del Paese, e stanziate le risorse adeguate, il metodo più efficace per selezionare le migliori idee su cui investirle è metterle a bando. Il Paese non ha bisogno di “feudi dorati”. Promuoviamo, invece, una competizione equa, trasparente, aperta a tutti, in grado di selezionare i capaci e i meritevoli ovunque siano per finanziare la migliore ricerca possibile, nell’interesse di tutti noi.

*Elena Cattaneo è docente della Statale di Milano e senatrice a vita

Abstract articolo di Elena Cattaneo*

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