Lavoro, Ocse: formazione continua ancora più urgente nel post-Covid ma pochi la fanno. Studenti italiani in difficoltà

Fonte: Il Sole 24 Ore – 17 giugno 2021

Abstract articolo di Giuliana Licini

Imparare a vita. Già prima del Covid-19, il progresso tecnologico, l’automazione e la digitalizzazione hanno reso superata la visione di un’esistenza in tre fasi ben distinte, istruzione-lavoro-pensione. L’emergenza sanitaria e la crisi senza precedenti che ha innescato rendono ancora più pressante la prospettiva dell’apprendimento permanente.

A sottolinearlo è lo “Skills Outlook 2021” dell’Ocse, dedicato alle competenze del presente, del futuro e alle (spesso traballanti) basi di partenza su cui poggiano.

Le competenze apprese sia a scuola che al lavoro diventano “vecchie” sempre più rapidamente e i lavoratori devono migliorare ed espandere la propria preparazione se vogliono adattarsi, e possibilmente anticipare, lo sviluppo tecnologico e mantenere l’occupazione. Eppure 8 adulti su 10 con un basso livello di istruzione non partecipano ad attività di formazione e non lo fanno neppure 4 adulti su 10 con un alto livello.

La situazione è peggiorata con il Covid che con le restrizioni introdotte ha causato – secondo le stime dell’Ocse – una flessione del 18% dell’apprendimento informale (cioe’ training al lavoro) da 4,9 ore la settimana per lavoratore a 3,7 ore e del 25% dell’apprendimento non-formale (interazione sociale con colleghi etc) a 0,7 ore. In Italia la diminuzione è stata da 4,1 ore per la formazione informale a 3,1 ore. Il calo è stato ampio soprattutto tra i lavoratori con qualifiche medio-basse, mentre è più contenuto tra i lavoratori molto qualificati, allargando il divario tra le due categorie.

L’Italia è comunque agli ultimi posti nell’Ocse per la formazione degli adulti (25-65 anni), con una quota pari solo al 23% contro percentuali che sfiorano il 60% nei Paesi scandinavi e il 40% medio Ocse.

Se poi si parte dalle basi, ovvero le competenze scolastiche essenziali per poter costruire l’apprendimento successivo e si guarda all’evoluzione nella prima fase dell’età adulta, periodo cruciale di transizione dall’istruzione al lavoro, l’Italia appare già in svantaggio rispetto ai maggiori Paesi.

Oltre ad avere competenze di lettura inferiori alla media a 15 anni, i ragazzi italiani mostrano miglioramenti molto modesti a 27 anni, restando in fondo al G7 e non solo. Dal “voto” nella comprensione dei testi di 261 punti nei test internazionali Pisa (contro la media Ocse di 268) nel secondo anno delle superiori, i giovani adulti della Penisola passano a 265, allontanandosi ancor più dai 285 della media Ocse per quell’età.

In confronto il Giappone tra i 15 e i 27 anni balza da 277 a 310 punti e la Germania da 259 a 284.

Un elemento importante per spiegare l’accumulo dello svantaggio italiano sono i Neet, i ragazzi che non sono né a scuola né al lavoro, né in formazione: in Germania sono uno su 10, in Italia uno su 4.

I ragazzi, d’altro canto, non sembrano avere idee chiarissime su dove sia meglio dirigere le proprie aspirazioni lavorative. Il 25% dei 15enni dei Paesi Ocse nel 2018 puntava a lavorare in occupazioni destinate a contrarsi nell’arco di un decennio. In Giappone la percentuale arriva al 43%, in Italia si ferma poco sotto il 24%, che equivale comunque a un ragazzo su 4.

Secondo le stime dell’Ocse del 2019, per circa il 14% dei lavoratori c’è l’alto rischio di vedere il proprio lavoro automatizzato (e quindi di perderlo) e un altro 32% dovrà fare i conti con cambiamenti radicali perché alcune mansioni saranno operate da robot o software.

Con la pandemia del Covid-19, la rapidità della trasformazione tecnologica è pure aumentata, accelerando i processi di automazione e di trasformazione delle professioni. Una situazione che porta anche alla creazione di nuovi posti di lavoro, ma in tempi diversi rispetto alla distruzione di quelli esistenti e anche se il risultato, come vari studi indicano, sarà di un aumento dell’occupazione, la distribuzione tra ‘vincitori e vinti’ sarà diversa tra settori e competenze.

Alcuni gruppi, come i lavoratori più anziani o meno qualificati, sono più vulnerabili. E’ impossibile prevedere le tecnologie o i modelli di business che preverranno tra 10 anni, ma basta pensare a tutto quello che si può fare con un telefonino adesso e che un decennio fa era impensabile oppure ricordare che allora piattaforme planetarie come Uber, Airbnb, Spotify e Netflix erano al massimo prototipi che operavano solo in alcuni Paesi. (…)

L’Ocse raccomanda ai Governi di fondare le politiche di formazione continua su un’offerta diversificata di opportunità di apprendimento che rafforzino la qualità dell’istruzione e del training e che siano basate su una concezione inclusiva, accessibile e adattabile.

Va rafforzata la visibilità e la trasferibilità delle competenze acquisite in questi programmi, con procedure di convalida e certificazione. Avendo, comunque, sempre ben presente che il potere della tecnologia va sfruttato, ma vanno presi in considerazione gli effetti che la tecnologia può avere sulle disparità presenti nelle competenze e sulla creazione di nuove disuguaglianze.

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